lunedì 31 dicembre 2012

Auguri!...Ovunque Tu sia, "guarda in alto"!


Con le parole e il discorso all’Umanità pronunciato e scritto da “un comico”, il presidio "Rita Atria" porge Auguri sinceri per un Anno Nuovo, per una vita che sia migliore per tutti. 
Auguri per tutti coloro che, con fatica, cercano di conservare "nelle scarpe e nella mente" quei sassolini fastidiosi che impediscono "facili corse": sassolini come la legalità , la giustizia, la sincerità, l'onestà. 
Auguri per un Anno Nuovo, per una vita migliore, a tutti coloro che - per conservare,quei sassolini-  hanno subito ingiustizie, violenze, sopraffazioni.
E’ l’augurio che ingenuamente ci ripetiamo ogni anno, lo sappiamo. Ma “augurio” è “desiderio”!... è il tentativo, l’invito, di “guardare in alto”! 
Ascoltiamo le parole che solo un comico (... o "un profeta")  potrebbe indirizzare all'Umanità senza "far ridere" chi le ascolta: 


Auguri !
Arrivederci nel Nuovo Anno

“discorso all’Umanità”:
«Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore non è il mio mestiere.
Non voglio governare né conquistare nessuno.
Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi.
Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro.
In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi.
La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato.
L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi.
Pensiamo troppo e sentiamo poco.
Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto.L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale. L’unione dell’umanità.
Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo. Milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente.
A coloro che mi odono io dico: non disperate! L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero. L’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. E il potere che hanno tolto al popolo, ritornerà al popolo. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa.
Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Non vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore. Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui.
Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell’Uomo». Non di un solo uomo o di un gruppo di uomini ma di tutti gli uomini.
Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare che la vita sia bella e liberaDi fare di questa vita una splendida avventura.
Quindi in nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti!
Combattiamo per un mondo nuovo, che sia migliore che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza.
Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere. Mentivano!
Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse.
Combattiamo per liberare il mondo eliminando confini e barriere, eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranzaCombattiamo per un mondo ragionevole. Un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere.
Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti.
Anna, Puoi sentirmi? Dovunque Tu  sia abbi fede! Guarda in alto…!(…)»

lunedì 24 dicembre 2012

Buon Natale! L’augurio del presidio "RITA ATRIA"


“Che ci crediate o no…”, 
l’augurio del presidio LIBERA - "RITA ATRIA" - Pinerolo 
è sempre lo stesso. 

L’ augurio è di godere di buona salute,
di coltivare amichevoli rapporti,
di saper resistere con mitezza alle contrarietà,
di ricevere nelle difficoltà qualche incoraggiante consolazione ,
di continuare a trovare ragioni promettenti per vivere con onestà e decoro


venerdì 21 dicembre 2012

AUGURI con i prodotti di LIBERA TERRA


I prodotti di LIBERA TERRA a Pinerolo, nella giornata di domenica 23 dicembre 2012,  sotto i portici di Corso Torino
Orario del banchetto: 9.30-12.30 ; 15.30 -18.30 


Passata di pomodoro, vini, pasta, olio, ceci, melanzane, farina di ceci, legumi sono il frutto dell'impegno e della passione dei ragazzi della cooperative che ogni giorno lavorano le terre che appartenevano alle mafie. I prodotti provengono dalle cooperative Libera Terra della "Valle del Marro" di Gioia Tauro in Calabria, della Cooperativa "Terre di Puglia" di Mesagne, delle palermitane "Placido Rizzotto", "Pio La Torre" di San Giuseppe Jato , "Libera-Mente",  e della Coop "Lavoro e non solo", e delle nuove coop "Le Terre di Don Peppe Diana" e "Beppe Montana".
Oggi vengono venduti in tanti punti vendita della grande distribuzione, nelle botteghe dell'equo e solidale e nelle "Botteghe dei sapori e dei saperi della legalità". Il 16 novembre 2006 alla vigilia di Contromafie a Roma fu inaugurata la prima bottega. 
A quella bottega, che oggi ha cambiato sede, negli anni se ne sono affiancate tante altre. Tra gli scaffali si possono trovare i pacchi di pasta dal grano duro prodotto sulle ex-proprietà di Brusca e Riina, l'olio extravergine e i vasetti di peperoncino provenienti dai terreni sequestrati in Calabria ai Mammoliti e Piromalli, il vino Centopassi prodotto nel corleonese, i pomodorini secchi , le friselline e i tarallini prodotti sui terreni della Sacra Corona Unita. 

Prodotti di ottima qualità anche perché, dentro, c'è il sudore, la passione e il coraggio dei ragazzi delle cooperative che hanno detto "No alla mafia" e che ogni giorno, superando mille difficoltà, lavorano la terra e lottano contro le mafie.



mercoledì 19 dicembre 2012

LA COSTITUZIONE ITALIANA

Nella serata di lunedì 17 dicembre il "guitto" Roberto Benigni, commentando quella che da molti viene ritenuta il documento fra i più belli che siano stati promulgati a fondamento di una nazione, la Costituzione Italiana, ha in realtà ripreso temi e suggestioni di un discorso "dimenticato" da molti: Il discorso è quello pronunciato da Piero Calamandrei a Milano, nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria, il 26 gennaio 1955. Si doveva svolgere allora un ciclo di conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un  gruppo di studenti universitari e medi e Piero Calamandrei tenne una "lezione" introduttiva che dovrebbe costituire il testo fondamentale dell'educazione civica degli italiani. 
Piero Calamandrei

Riportiamo quel discorso memorabile; discorso tanto più attuale oggi che il degrado della politica partitica italiana sembra sconfessare quotidianamente spirito e principi di quella Carta Costituente, bella ma ancora in gran parte incompiuta.

Il discorso di Piero Calamandrei. Milano,  26 gennaio 1955. 

L’art.34 dice:” I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: 
”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 
E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini  dignità di uomo.
Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula  contenuta nell’art. primo- “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro “-  corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di  studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra  Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia  in  cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il  loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a  questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è  una realtà. In parte è ancora un  programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi! 
E‘ stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle  costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una  polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente,  contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili  politici, ai diritti di libertà,  voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica,  quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano  sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società  presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di  ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un  giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna  modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione  ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le  vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune  s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva,  che mira alla trasformazione di questa società  in cui può accadere che, anche quando ci sono, le  libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche, dalla impossibilità  -per molti cittadini- di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al  progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi  per trasformare questa situazione presente.
Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La  costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni  giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di  mantenere queste promesse, la propria responsabilità. 
Per questo una delle offese che si fanno alla  costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è -non qui, per fortuna, in  questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani- una malattia dei giovani.  ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo  discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina,, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di  questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran  burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito  domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il  bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe,  Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: ” Che  me ne importa, non è mica mio!”. Questo è l’indifferentisno alla politica.
E’ così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che  interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere,  da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è  come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di  asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi,  giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in  quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo  dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio  contributo alla vita politica.
La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario  non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della  sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria  libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. 
Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2  giugno 1946, questo popolo che da  venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo  un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo- io ero a Firenze,  lo stesso è capitato qui- queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta  perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare  la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di  noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle  nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere,  sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto- questa  è una delle gioie della vita- rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in  più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo.
Ora vedete- io ho poco altro da dirvi-, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle  prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le  nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi  articoli ci si sentono delle voci lontane. 
Quando io leggo nell’art. 2, ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,  economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di  offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è  Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere  davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e  indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art.  52, io leggo, a proposito delle forze armate,”l’ordinamento  delle forze armate si informa allo  spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi  voci lontane, grandi nomi lontani.
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa  costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani  come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di  concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di  Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.  Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un  testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle  montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono  impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.

Piero Calamandrei.



domenica 16 dicembre 2012

Il processo che ha cambiato l’antimafia


"Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia!"

Queste parole non sono la riflessione conclusiva di giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma sono contenute nelle ultime righe del libretto di Napoleone Colajanni " Nel regno della mafia", pubblicato nel 1900. 
Parole che sembrano scritte oggi, ieri o venticinque anni fa, quando cominciava il Maxi-processo di Palermo: era il 16 dicembre 1992. Quello doveva essere il primo tassello del progetto di scardinamento del sistema mafioso; progetto per il cui compimento Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano consci e pronti a dover sacrificare addirittura le loro stesse vite. 
La mafia era presente nella cattedrale di Palermo, dinanzi alle bare di giudici e uomini delle forze dell'ordine; la mafia continua a sedere nel Parlamento italiano; la mafia continua a imporre il suo dominio con la complicità e l'acquiescenza di pezzi importanti del sistema italiano. Ma ha ragione Francesco Licata nell'articolo che riportiamo: "(...) Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo».  
Dopo di quella data  non è accettabile fingere di non sapere, di non capire, che "pezzi" del sistema italiano continuano ad essere "Re della mafia"



Il processo che ha cambiato l’antimafia

Fonte : LA Stampa

FRANCESCO LA LICATA
Il maxiprocesso contro la mafia, di cui celebriamo oggi il venticinquesimo anniversario, ha rappresentato forse l’unico vero avvenimento rivoluzionario della nostra storia politico-giudiziaria. Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo».  
l'aula del Maxi-processo di Palermo

Da allora è cambiata la lotta alla mafia, anzi si può tranquillamente affermare che allora ebbe inizio l’antimafia nelle aule di giustizia.  
Già, perché prima Cosa nostra semplicemente non esisteva come organizzazione criminale unica, coesa e con un’unica direzione strategica. Si erano celebrati processi che puntualmente erano andati a naufragare fra le correnti dei singoli avvenimenti, analizzati caso per caso e perciò indecifrabili o sbrigativamente liquidati con la formula salvifica dell’insufficienza di prove.  

Il maxiprocesso, invece, finì per rappresentare il racconto completo di un pezzo di storia d’Italia, a partire dal dopoguerra.  Ma un racconto sarebbe rimasto limitato ed esposto alle interpretazioni letterarie se non fosse stato saldamente inserito nei confini rigorosi di una sentenza giudiziaria. Per questo l’istruttoria che preludeva al «maxi» era stata osteggiata con ogni mezzo, lecito o azzardato. Lo sbarramento politico, in chiave utilitaristicamente garantista, aveva aperto le ostilità con le aggressioni a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino e al resto dei componenti del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo. La battaglia sul campo sarebbe stata affidata agli avvocati che, sul terreno di combattimento dell’aula bunker, avrebbero messo in atto ogni mezzo (ostruzionismo e ricerca dilatoria, soprattutto) per affossare il dibattimento. Un impegno che a qualcuno dei legali, in seguito, avrebbe procurato un riconoscimento politico tale da spalancare le porte del Parlamento, anche dopo la vittoria di Falcone: la cupola (19 boss) all’ergastolo, i picciotti condannati duramente (2665 anni di carcere) e l’«anticipo» di ciò che sarebbe avvenuto in politica col coinvolgimento giudiziario dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino.  

Ma proprio questa efferatezza dello scontro, che riguardava Cosa nostra ma non risparmiava i partiti «cresciuti» e «ingrassati» sotto l’ala mafiosa, risulterà essere il timer della bomba che esploderà negli Anni Novanta con l’aggressione stragista allo Stato e il conseguente, scellerato cedimento alla tentazione trattativista. La mafia presentava il conto accumulato durante gli anni delle «indecenti frequentazioni» della politica, e chiedeva di essere salvata dal maxiprocesso che, proprio nel 1992, trionfava in Cassazione (malgrado l’assassinio preventivo del giudice Scopelliti, designato come pm) e relegava la direzione strategica corleonese al carcere a vita. Una condizione che, di fatto, svuotava di potere l’intera organizzazione criminale. Muore l’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima, giustiziato pubblicamente come «primo messaggio» di Cosa nostra. Il resto è storia conosciuta: Capaci, via D’Amelio, le stragi di Roma, Firenze e Milano, la mancata strage del 1994, allo stadio Olimpico. A distanza di tanti anni risulta più comprensibile l’affermazione di quanti dichiararono amaramente che «Falcone cominciò a morire il giorno in cui la Cassazione consacrava il successo del maxiprocesso». Morirà anche Paolo Borsellino e morirà la seconda volta quando verrà fuori l’intreccio della trattativa fra Stato e mafia, con le prove del depistaggio e dell’infedeltà istituzionale. Ma oggi, dopo 25 anni, il coltello è ancora affondato nella carne di Cosa nostra: le hanno tentate tutte, ma gli ergastoli stanno ancora sulle loro teste.  

mercoledì 12 dicembre 2012

12 dicembre 1969 alle ore 16:37, piazza Fontana a Milano

12 dicembre 1969 alle ore 16:37, piazza Fontana a Milano. Una bomba scoppia nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in  uccidendo diciassette persone (quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto.

.Milano, 12 Dicembre 1969  ore 16, 36

La strage di piazza Fontana viene diffusamente considerata come l'inizio della cosiddetta strategia della tensione. In realtà , a partire da strage di Portella delle Ginestre avvenuta il 1 maggio del 1947, ci sono stati in Italia, e certamente ci sono ancora, uomini che hanno pensato fosse conveniente, a qualcosa e a qualcuno, uccidere uomini e donne innocenti. Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti.
E’successo e potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente, per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori; per impedire o indirizzare cambiamenti.
Erano innocenti i contadini che festeggiavano il primo maggio del 1947 a Portella delle Ginestre; erano innocenti le persone che il 13 dicembre del 1969 erano nella sala della Banca dell’Agricoltura a Milano.



martedì 11 dicembre 2012

Ierisera, alla "Fabbrica delle e" Piera Aiello, testimone di giustizia, ha presentato il libro 'Maledetta Mafia', scritto insieme al giornalista Umberto Lucentini.

Abbiamo ascoltato le parole coraggiose di una donna che ha scelto di raccontare la mafia.
Piera Aiello aveva solo 18 anni quando ha sposato Nicolò. Nove giorni dopo il matrimonio, il suocero, Vito Atria, un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca al marito, sotto i suoi occhi.
Il momento di svolta è l'incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri". Quell'uomo è Paolo Borsellino.


"Da quando lo "zio Paolo" mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d'assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte", compresa la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l'assassinio di Borsellino Rita non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita. Rita Atria, come Piera Aiello,  diventano l'esempio del "testimone di giustizia" , figura che sarà introdotta nell'ordinamento giuridico italiano con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001 

giovedì 6 dicembre 2012

A Torino, "Fabbrica delle e", la storia di Piera Aiello: "Maledetta mafia"

Senza "la storia" di Piera Aiello forse non ci sarebbe stata "la storia" di Rita Atria. Le loro vite si legano per sempre a quella di Paolo Borsellino



- Paolo Borsellino: " Piera, tu cosa vedi allo specchio?"
- Piera: " Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrregotivo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io?"
- Paolo Borsellino: "io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto quello che stai facendo"

Partanna (Trapani). Piera Aiello ha solo 18 anni quando sposa Nicolò. Nove giorni dopo il matrimonio il suocero, Vito Atria, un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca a Nicolò, sotto gli occhiimpotenti di Piera. Dopo quell'omicidio in Piera scatta qualcosa: "vedova di un mafioso, vestita a lutto come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. In quel momento il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita Maria". Il momento di svolta è l'incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri". Quell'uomo è Paolo Borsellino. "Da quando lo "zio Paolo" mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d'assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte", compresa la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l'assassinio di Borsellino Rita non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita. Rita Atria, come Piera Aiello,  diventano l'esempio del "testimone di giustizia" , figura che sarà introdotta nell'ordinamento giuridico italiano con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001 



mercoledì 5 dicembre 2012

LIBERA. I COSTI SOCIALI E SANITARI DEL GIOCO D'AZZARDO


I COSTI SOCIALI E SANITARI DEL GIOCO D'AZZARDO

Siamo sicuri che lo Stato, e la collettività, ci guadagnino favorendo la diffusione del gioco d'azzardo? "Mettiamoci in gioco", campagna nazionale contro i rischi del gioco d'azzardo risponde con un chiaro "no, non ci guadagnano affatto". Una posizione ribadita il 4 dicembre rendendo pubblico al Senato un dossier sui costi sociali e sanitari del gioco d'azzardo. All'interno dell'iniziativaLibera ha presentato il dossier "Azzardopoli 2.0", sulla presenza delle mafie nel settore.

MILIARDI DI COSTI SOCIALI. Se è vero che lo Stato potrebbe incassare quest'anno 8 miliardi di euro, grazie alle tasse versate dai concessionari dei giochi, la campagna promossa da ACLI, ADUSBEF, ALEA, ANCI, ANTEAS, ARCI, AUSER, Avviso Pubblico, CGIL, CISL, CNCA, CONAGGA, Federconsumatori, FeDerSerD, FICT, FITEL, Fondazione PIME, Gruppo Abele, InterCear, Libera, UISP stima in una cifra compresa tra i 5,5 e i 6,6 miliardi di euro annui i costi sociali e sanitari che il gioco d'azzardo patologico comporta per la collettività. A questi vanno aggiunti 3,8 miliardi di euro di mancato versamento dell'iva, nel caso in cui i 18 miliardi di euro, sul fatturato complessivo, che non tornano ai giocatori in forma di montepremi fossero stati spesi in altri consumi (con iva al 21%). Ma ci sono poi i costi non facilmente stimabiliche riguardano l'aggravarsi di fenomeni sociali rilevanti: le infiltrazioni mafiose nei giochi, la crescita del ricorso all'usura, il peggioramento delle condizioni delle persone più fragili e povere, maggiormente esposte alla seduzione di slot e biglietti della lotteria, i sussidi da versare a chi si rovina giocando, l'incremento delle separazioni e dei divorzi, un aumento impressionante di giocatori tra i minorenni.

TANTI SOLDI PER I GIOCHI, POCHI PER LO STATO. La campagna stima tra gli 88 e i 94 miliardi di euro il business dell'azzardo, nel nostro paese, per l'anno in corso, terza industria nazionale con il 4% del Pil prodotto. Ma se il giro d'affari cresce, le entrate per lo Stato - in percentuale - scendono incessantemente: si è passati dal 29,4% del 2004 all'8,4% del 2012, sul totale del fatturato. Che significa una cifra più o meno simile di entrate fiscali mentre il fatturato è cresciuto di quasi il 400 per cento!
Mentre i consumi e i risparmi delle famiglie italiane decrescono, dunque, le spese per i giochi non conoscono crisi: siamo il primo paese al mondo per il Gratta e vinci, abbiamo un numero pro capite di macchine da gioco di ultima generazione - le Vlt - triplo rispetto agli Stati Uniti, deteniamo il 23% del mercato mondiale del gioco on line. La spesa pro capite annua per ogni italiano maggiorenne va, a seconda delle stime, da 1703 a 1890 euro. Le persone che hanno problemi di dipendenza sono tra le 500mila e le 800mila, quelle a rischio sono quasi due milioni. Insomma, l'Italia è tra i primi paesi al mondo per consumi di gioco d'azzardo. 

E LE MAFIE INGRASSANO. Il Dossier di Libera "Azzardopoli 2.0" segnala cifre allarmanti anche per quanto riguarda il coinvolgimento delle mafie e il gioco illegale. Ammonta a 15 miliardi di euro il fatturato stimato del gioco illegale per il 2012. Ben 49 clan gestiscono giochi di vario genere: dai Casalesi di Bidognetti ai Mallardo, dai Santapaola ai Condello, dai Mancuso ai Cava, dai Lo Piccolo agli Schiavone.

UN APPELLO A ISTITUZIONI, PARTITI, UNIVERSITA', CITTADINI. Con la presentazione dei due dossier la campagna si rivolge prima di tutto alle Istituzioni e ai partiti affinché intervengano in modo molto più incisivo in materia di gioco d'azzardo, ponendo al primo posto la tutela della salute del cittadino. La recente vicenda del decreto Balduzzi sulla sanità ha evidenziato ancora una volta la forza della lobby dell'azzardo, capace di affondare i buoni propositi del ministro. È invece necessario che il tema sia messo al più presto in agenda, fin dall'inizio della prossima legislatura. 
È evidente che i dati sul fenomeno di cui disponiamo sono largamente insufficienti. La campagna ha voluto raccoglierli per evidenziare tutti i punti problematici, ma è urgente un'azione di indagine per valutare il fenomeno del gioco d'azzardo e i costi sociali e sanitari che comporta. A tal proposito, la campagna rivolge un appello al mondo dell'università e della ricerca per realizzare insieme indagini più estese ed accurate.

La campagna "Mettiamoci in gioco" è promossa da: ACLI, ADUSBEF, ALEA, ANCI, ANTEAS, ARCI, AUSER, Avviso Pubblico, CGIL, CISL, CNCA, CONAGGA, Federconsumatori, FeDerSerD, FICT, FITEL, Fondazione PIME, Gruppo Abele, InterCear, Libera, UISP

 
 
 
 

martedì 4 dicembre 2012

Continua la saga delle mafie al Nord: la famiglia Marando è la 'ndrangheta calabrese a Volpiano

Mentre è in corso il processo di primo grado originato dall'"Operazione Minotauro" (giugno 2011), nuovi elementi si aggiungono e rafforzano l'idea di quanto sia stata "poco visibile", spesso sottovalutata, la penetrazione della 'ndrangheta calabrese in Piemonte

fonte : LA Stampa
Ville e terreni, sequestrati beni 

per 20 milioni ai Marando

Sequestrata anche una cascina con terreni
Colpo alla famiglia Marando: dal feudo di Volpiano a tutta Italia
CLAUDIO LAUGERI

TORINO
La Giustizia ha colpito ancora una volta i beni della famiglia Marando. Case, terreni, auto per un ammontare di 20 milioni di euro, tra Piemonte, Lombardia, Lazio e Calabria. 
La Direzione investigativa antimafia (Dia) di Torino guidata da Sergio Molino ha raccolto il materiale utilizzato dal procuratore aggiunto Alberto Perduca per ottenere dalla Sezione «misure di prevenzione» del tribunale torinese il sequestro di quei beni. Tutto collegato all’operazione Marcos, conclusa nel 2010 con 8 arresti. Un’indagine sul riciclaggio delle ricchezze legate al traffico internazionale di droga, il business che finanziava la cosca. 

La famiglia  
Da anni, i Marando sanno di essere nel mirino delle forze dell’ordine. Per questo, utilizzavano prestanome come intestatari di case e terreni. Ma già due anni fa gli investigatori avevano messo le mani sulle ricchezze della famiglia. «Quello era un sequestro legato a un procedimento penale. Oggi è una misura di prevenzione legata alla pericolosità sociale dei personaggi in questione, oltre alla sproporzione tra i loro redditi e i patrimoni posseduti» spiega il procuratore aggiunto Alberto Perduca. Uno strumento legale per contrastare in modo efficace la criminalità organizzata, più rapido di quello penale.  

Il feudo di Volpiano  
L’attenzione degli inquirenti si è concentrata su Volpiano, «feudo» dei Marando. La ricostruzione delle ricchezze della cosca ha portato a scoprire 12 fabbricati (appartamenti e garage) e due terreni a Volpiano, altri due alloggi e un terreno a Leinì, ma anche una «mega-cascina» con 19 terreni a Rivarossa. Quella proprietà (intestata alla società «Green Farm») è costata il coinvolgimento nell’inchiesta a Mario Loi, conosciuto come «padre Rambo», sacerdote che gestisce la comunità «Speranza 2000» alla Falchera, che per alcuni anni sarebbe stato - secondo le accuse - intestatario della società, prima di cederla a un prestanome dei Marando. 

La casa  
In mezzo all’elenco di appartamenti e terreni finiti sotto sequestro c’è anche una villa nelle campagne di Nettuno, ottenuta dai Marando come saldo per il prestito di 50 mila euro fatto a un ex compagno di carcere: lui non riusciva a restituire i soldi e ha ceduto la villa, poi intestata al fratello dell’educatrice carceraria complice della cosca. Lei aiutava la famiglia a tenere i contatti con l’esterno, i Marando l’hanno ricompensata. 

venerdì 23 novembre 2012

Processo "Minotauro": a Torino è il giorno del pentito Rocco Varalli


 Varacalli ha spiegato che la struttura dell’organizzazione criminale «a Torino è la stessa cosa che in Calabria, non cambia nulla. 

La `ndrangheta è fatta come un polipo, con la testa e i tentacoli».


Fonte: La Stampa

Si è guadagnato più durante le Olimpiadi del 2006 che in una strada di Calabria”

MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO


Rocco Varacalli in una immagine di repertorio 
In aula il pentito Varacalli, teste chiave per Minotauro, racconta gli anni dell’adolescenza: «Cosa serve lavorare tutto il giorno? Con la droga puoi fare tanti soldi»

Rocco Varacalli uno dei principali collaboratori di giustizia, noto anche per la sua recente fuga dal programma di protezione, ha fatto il suo ingresso nell’aula bunker delle Vallette, poco prima delle 10, per raccontare i rapporti delle famiglie affiliate alla ’ndrangheta. Rapporti che si intrecciano tra la Calabria e il Piemonte. Il suo racconto è iniziato dal periodo in cui era adolescente, a 17 anni, quando per la prima volta ha avuto coscienza della criminalità, a Torino, giovane immigrato dal sud. 

Un amico di famiglia lo ha introdotto nel mercato della droga: «Cosa serve lavorare tutto il giorno, sporcarsi di calce ? Con la droga puoi fare tanti soldi». Da questo punto è la sua testimonianza, che si protrarrà per gran parte della giornata. A condurre l’interrogatorio sono i pm Roberto Sparagna e Monica Abbatecola, di fronte al collegio presieduto da Paola Trovati. 
«Per aprire un locale di `ndrangheta a Torino bisogna avere minimo 49 uomini, o di più e non di meno, e serve il «crimine» con tutte le cariche. Se no non si può».  
Varacalli ha spiegato che la struttura dell’organizzazione criminale «a Torino è la stessa cosa che in Calabria, non cambia nulla. La `ndrangheta è fatta come un polipo, con la testa e i tentacoli». Poi, per spiegare che a seconda della situazione e del momento storico la `ndrangheta guarda più al nord o al sud per i suoi affari: «si è guadagnato più a Torino durante le Olimpiadi 2006 che in una strada di Calabria».  


Varacalli ha anche fatto riferimento alla Massoneria, «quella vera e propria». Mentre spiegava i vari gradi e i ruoli a cui il membro della ’ndrangheta può aspirare, Varacalli ha raccontato: «Attaccare i ferri significa essere completo nella Società minore ed essere pronto ad arrivare alla Santa, al Vangelo, ai gradi della Società maggiore. La massoneria ha voluto la Santa. Avere la Santa può avere a che fare con la Massoneria, quella vera e propria, che è come la ’ndrangheta, dove ci sono geometri, avvocati, preti. Chi arriva alla Santa è perchè è già capace di uccidere. Dopo la Santa ti riconosce la mafia, la massoneria e tutta la provincia».  

Varacalli, che nel 2004 era diventato camorrista finalizzato all’interno del locale di Natile di Careri di Torino, al cui vertice negli anni si sono avvicendati Paolo Cufari, Saverio Napoli, Enzo Argiro’ ha spiegato la storia recente della ’ndrangheta in Piemonte e la sua strategia gerarchica. “Quando io sono stato attivato da Torino, nel 1994, gli ’ndranghetisti erano tutti uniti e c’era un locale solo, al cui vertice c’era Rocco Spera, un uomo anziano e zoppo” ha spiegato. Poi negli anni si sono sviluppati diversi locali, riconosciuti da San Luca. “I locali non riconosciuti si chiamano Bastarda e questi fanno gli stessi traffici della ’ndrangheta, ma da soli senza fare capo a San Luca” ha spiegato tra le altre cose Varacalli.  




mercoledì 21 novembre 2012

Quando la crisi uccide la speranza


Leggi Marco Aurelio: "Di ogni singola cosa chiediti che cos'è in se, qual'è la sua natura..."

Lo abbiamo capito: quando parliamo della battaglia non-violenta alle mafie, quando parliamo di "antimafia", parliamo essenzialmente della "guerra" che, a partire dalle prime cooperative siciliane nate alla fine dell'Ottocento, è stata combattuta per la conquista del Lavoro:  il lavoro vero e onesto che permette di liberarsi dal ricatto degli uomini delle mafie. 

Il lavoro è il mezzo attraverso il quale si conferisce dignità e libertà alla nostra vita. 


Fonte: La Stampa

Non trova un lavoro

Si uccide a cinquant’anni


La moglie: nessuno lo voleva L’uomo, Massimo P., ha telefonato alla moglie al lavoro alle 11 e alle 14,30 ha impugnato la pistola che teneva in casa

Era disoccupato da gennaio, si è sparato alla tempia
MASSIMO NUMA
«Ci faremo sentire noi, grazie e arrivederci». Poi, «Il curriculum va benissimo, lei è proprio adatto al tipo di lavoro che noi offriamo;  unico problema l’età....». Stanco di queste risposte, stanco di camminare da un’agenzia interinale all’altra, stanco di ritornare a casa dalla moglie, che almeno un lavoro l’ha ancora, con la solita faccia di chi non riesce a risolvere il problema, lo stesso da mesi, esattamente da gennaio, quando era scaduto - senza rinnovo - l’ultimo contratto di lavoro. 

Il problema è quello di essere un precario, un disoccupato senza speranza. Abbastanza giovane per assumere ancora un incarico di responsabilità, ma ormai inesorabilmente tagliato fuori dal mondo del lavoro, in preda a una crisi che non accenna a risolversi. Così Massimo P., 50 anni, un’ex guardia giurata, residente in corso Brunelleschi, ieri alle 14,30, ha impugnato la pistola regolarmente denunciata, e s’è sparato un colpo alla testa. Morto sul colpo. Fine della sofferenza.  

L’ultima telefonata con la moglie, ieri mattina alle 11. Niente che lasciasse trapelare le sue intenzioni. Una coppia con una vita serena alle spalle, senza figli. «Era molto triste in questo periodo, proprio per la mancanza di lavoro, ma non prendeva nè farmaci, nè aveva mai dato segni di un esaurimento nervoso», ha detto la moglie alla polizia. E’ lei che, tornando a casa, ha scoperto il corpo. Il marito non ha lasciato alcun biglietto. «Da gennaio era rimasto definitivamente a casa, inutili tutti i suoi tentativi di trovare un’occupazione, di qualsiasi tipo, anche diversa dalla sua. Niente. Aveva collezionato solo delusioni». 
Un dolore profondo vissuto con dignità, senza mai abbandonare il rispetto per se stesso e gli altri. Quella lunga teoria di porte chiuse, di lunghe attese in uffici anonimi, con il vestito buono per fare bella figura, sempre in ordine, gli avevano scavato l’anima.  

Guardarsi allo specchio, ogni mattina, e chiedersi perchè svegliarsi e ritrovarsi prigioniero di un incubo, ad aspettare invano una telefonata; aprire il computer, scrutare la casella delle mail ingombre solo di spam. Ripercorrere per mille volte gli anni passati, quando i colleghi, i capi, lo stimavano per le sue qualità, per tutte quelle volte che si era trovato a risolvere situazioni difficili e delicate. E la sua onestà, che nel curriculum non si può indicare, come un inutile optional, valore zero. 

«Non riusciva più ad avere un impiego che non fosse a tempo, che durasse non più di qualche mese, a volte tre mesi, e poi di nuovo a casa, ad aspettare», spiega ancora la sua compagna, rimasta sola, con i ricordi felici di pochi anni fa, quando erano una coppia con i conti in ordine, con la possibilità di andare in vacanza, di dare un senso alla fatica quotidiana. Restano le foto di un mondo che non c’è più, con i suoi riti che sino a ieri sembravano immutabili.  

Gli agenti del 113 hanno ricostruito la storia, la Scientifica ha concluso l’intervento solo a tarda sera. Solo atti burocratici e una scarna relazione di servizio, eguale o simile ormai a tante altre, in questo periodo.  

martedì 20 novembre 2012

Lea Garofalo testimone di giustizia, uccisa e sciolta nell'acido dalla 'ndrangheta. Milano ricorda il suo sacrificio

Lea Garofalo, Lea Garofalo testimone di giustizia, uccisa e sciolta nell'acido dalla 'ndrangheta. Milano ricorda il suo sacrificio per il riscatto e la dignità di tutti noi. Iniziative dal 19 al 25 novembre.



l'ultima passeggiata di Lea Garfalo insieme alla figlia Denise

Riportiamo l’articolo scritto da Nando dalla Chiesa e pubblicato su "Il Fatto Quotidiano" il 2 aprile 2012

Lea Garofalo e le ragazze che non mollano

Sei ergastoli per il clan Cosco. Per tutti gli imputati dell’assassinio di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese uccisa a Milano per ordine del marito. Colpevole di avere scelto di uscire con la figlia Denise dall’ambiente infernale del narcotraffico e delle faide tra clan e perciò testimone di giustizia. Attirata in trappola dal marito, “giustiziata” a colpi di pistola e successivamente sciolta in cinquanta litri di acido.
Una storia terribile che si è incisa nella coscienza di molti. La ferocia bestiale non aveva fatto però i conti con il coraggio della figlia, che ha trovato la forza di denunciare il padre. E di affrontare la clandestinità per sottrarsi alle pressioni e ai condizionamenti dei familiari. Un delitto, uno sfondo di traffici, un luogo di origine, che disegnano un tipico contesto mafioso, anche se in aula il pubblico ministero non ha voluto invocare l’aggravante di mafia. Da cui la scelta del comune di Milano di costituirsi parte civile. E da qui, soprattutto, l’entrata in scena di un attore collettivo che certo gli imputati non avevano previsto: un gruppo di giovanissime donne, mescolate a qualche coetaneo. Studentesse appena maggiorenni o perfino minorenni che avevano sentito parlare di questa storia in qualche incontro sulla legalità nella propria scuola. Che avevano saputo di questa ragazza fuggitiva e costretta a testimoniare contro il padre e che probabilmente non sarebbe stata creduta: l’avrebbero fatta passare come psichicamente instabile, avrebbero messo in giro su di lei voci ignobili, quante volte non è successo? E chi mai avrebbe preso le sue parti nella Milano in cui per fare accorrere i fotografi bisogna chiamarsi Ruby o Nicole?
Così le giovanissime donne hanno deciso di stare accanto a Denise e di fare propria la sua richiesta di giustizia. Lucia, Marilena, Giovanna, Giulia, Monica, Alessandra, Paola, Elisabetta, Costanza, più di una quindicina in tutto, si sono fatte trovare il 21 settembre al Palazzo di Giustizia, prima sezione della corte d’assise. Emozionate come delle debuttanti. I Cosco non capirono chi fossero e che cosa volessero quelle ragazzine. Così mandarono, perché anche questo succede, un agente della polizia penitenziaria da Giovanna per sapere come mai si fossero date appuntamento proprio lì. Quando lei si sentì interrogare, nonostante l’inesperienza, capì che qualcosa non andava: “E lei perché me lo sta venendo a chiedere?”.
A ogni udienza, appena finita la scuola, le ragazze si davano appuntamento. Dal Virgilio, dal Volta, dal Caravaggio, dall’Università. Anche se Denise non c’era, essendo sotto massima protezione. Si mobilitavano per lei, per la coetanea mai vista e mai conosciuta a cui avevano ucciso e sciolto nell’acido la madre. Con l’idea che quella ingiustizia pesasse anche su di loro. Rimasero perciò di sasso quando il presidente della Corte venne nominato Capo di gabinetto dal nuovo ministro della Giustizia. Quando seppero che per questo il processo sarebbe dovuto ricominciare. Davvero Denise, che già aveva fatto violenza a se stessa per testimoniare la prima volta, sarebbe dovuta tornare ad affrontare domande e insinuazioni? Lucia ricorda perfettamente lo sgomento: “Era novembre, un mercoledì pomeriggio, quando sapemmo che bisognava rifare tutto daccapo. Pensammo che era assurdo, che non esisteva, così decidemmo che il giorno dopo non saremmo andate a scuola e avremmo portato uno striscione bianco con le bombolette mettendoci davanti al tribunale per dire che volevamo giustizia per Denise. Qualcuno ci ammonì che rischiavamo di apparire critiche verso i magistrati, ma noi lo facemmo lo stesso. Ingenuamente, forse. Ma per giustizia”.
Continuarono a esserci. Hanno dato vita addirittura a un presidio di Libera intitolato “Lea Garofalo”Con tanti giovedì sera passati a decidere come coinvolgere giovani e adulti o per stabilire come ripartirsi i turni. L’altro ieri, appena è circolata la voce che la sentenza sarebbe stata pronunciata verso l’ora di cena, si sono date appuntamento di corsa al palazzo di giustizia. Fuori dall’aula, agitate, in silenzio, tenendosi per mano tutto il tempo, con qualche ragazzo che riscattava con la sua presenza il genere maschile. L’emozione della prima sentenza attesa in vita loro. I sei ergastoli? “Non c’è da essere contenti”, dice Giovanna, “Lea non tornerà in vita e un ventenne all’ergastolo (il fidanzato di Denise; nda) non è una bella notizia, però penso che Denise ha avuto giustizia e mi sento più leggera”. Altri i toni di Lucia: “Sono felice. Perché mi sembra che a volte le cose vadano per il verso giusto”. C’è quasi una morale in tutta la vicenda, a ripensarci. Una donna indifesa è stata uccisa con ferocia inaudita da sei uomini. Una donna indifesa anche lei, almeno all’inizio, ha avuto il coraggio di testimoniare per amore. Un’altra donna (la presidente Anna Introini) ha guidato il processo a passi veloci. E altre giovanissime donne hanno voluto che questa storia diventasse di tutti, facendone uno straordinario fatto pubblico.
Lea Garofalo, che gli assassini volevano fare tacere e scomparire per sempre, parla oggi con la sua storia a una città, forse al paese
Noi abbiamo fatto una cosa semplice, spontanea”, commenta Marilena, “si pensa sempre che si debbano fare grandi cose per cambiare, noi abbiamo solo voluto immedesimarci con un’altra ragazza e aiutarla. Certo la sentenza è importante, ma Denise continuerà a vivere sotto protezione. Per questo non finisce qui. Noi le staremo accanto ancora”.
Il Fatto Quotidiano, 1 Aprile 2012