martedì 26 luglio 2016

RITA ATRIA. 26 Luglio 1992. " La verità vive!"

RITA  ATRIA
TESTIMONE DI GIUSTIZIA
 "(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. (...)".


Il contributo di Rita Atria alla lotta culturale contro le mafie è essenziale. Rita Atria comprende  tutto sulla mafia perchè Rita Atria comprende "la verità" su uno degli elementi essenziali della mafie: il pensiero mafioso. E Rita Atria, grazia all'esempio di sua cognata Piera Aiello, trova il coraggio di affermarlo: "la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci"
Se abbiamo compreso questa verità occorre avere i comportamenti conseguenti a cui Rita Atria chiama. Usare "la maschera", il nome di Rita Atria, senza assumersi la responsabilità di comportamenti conseguenti alla sua semplice, radicale e definitiva comprensione del "pensiero mafioso", significa vanificare la morte, cancellando quello che Lei ci ha fatto scoprire con la sua vita, semplicemente ma radicalmente, una volta per tutte! 
Perchè Rita Atria non voleva morire per diventare l'eroina da esporre sugli altari delle nostre ipocrisie. 
Rita Atria -"a picciridda", così la chiamava con affetto Paolo Borsellino- voleva vivere! Rita Atria voleva vivere in un mondo differente: "(...) un altro mondo fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo".

Il senso del nostro impegno, dell'impegno del presidio LIBERA Rita Atria Pinerolo

"(...) Quando ci chiediamo cosa sono le mafie, la risposta più semplice, essenziale, la troviamo “facendo memoria” delle parole scritte da Paolo Borsellino la mattina del 19 luglio 1992, poche ore prima di essere ucciso insieme agli agenti della sua scorta: “(…) La mafia è essenzialmente ingiustizia.(...)”
E poi dobbiamo “fare memoria” di un altro “pezzo di verità”che emerge dalla storia di una ragazzina siciliana, divenuta testimone di giustizia grazie all'esempio della cognata Piera Aiello e all'incontro prorpio col giudice Paolo Borsellino. Rita Atria, lei è la “ragazzina siciliana”, lascia scritta nel suo diario il “pezzo di verità” dinanzi alla quale tutti siamo chiamati a confrontarci: “(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combarrete la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, perchè la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.”
Il “pensiero mafioso”, l'ingiustizia -piccola o grade- commessa ai danni di qualcun altro per ottenere quello che non ci meritiamo o per trarne qualche beneficio, è un meccanismo semplice, primitivo ma efficacissimo in un “sistema malato” quale quello italiano, soggiogato da mafie e corruzione; talmente efficace, quel “pensiero”, che da tempo viene utilizzato anche da coloro che “mafiosi” in senso stretto non sono e non possono essere definiti. 
Fare memoria di Rita Atria per noi significa non tanto commemorarne la morte quanto rispondere  e rendere concreto l'insegnamento della sua vita, agendo -concretamente- per liberarci, noi per primi, dal "pensiero mafioso", perche se è vero che pochi di noi avranno la ventura di trovarsi dinanzi ad un mafioso propriamente detto, tutti noi -quotidianamente- possiamo invece scontrarci col “pensiero mafioso”: attraverso una “ingiustizia” ( più o meno grande) cercare di ottenere quello che non ci meritiamo.(...)"
La domanda essenziale allora diventa la seguente: "Cosa cambia per una comunità se ad usare il “pensiero mafioso” è un mafioso propriamente detto oppure uno (o un gruppo!) che persegue gli stessi obiettivi ( per ottenere ciò che non si merita!) ?
E dopo essersi posta questa domanda, occorre avere i comportamenti conseguenti a cui Rita Atria chiama! Questo il significato della vita di Rita Atria, questo l'impegno del presidio LIBERA "Rita Atria" -  Pinerolo
                                                                                                     Arturo Francesco Incurato
                                                                     referente presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo

"Una Storia disegnata nell'aria"
frammento tratto dal testo drammaturgico di Guido Castiglia: 

26 Luglio 1992 - Roma

Quartiere Tuscolano - 33 gradi - ore 15,00


Il frullio di ali di un passero, scuote velocemente le fronde di un albero di fronte al numero 23 di viale Amelia e si alza in volo, inseguendo una traiettoria ripida, superando il tetto del palazzo.
Lassù, al settimo piano, una finestra si apre, una ragazza si affaccia.
I capelli ondulati, scuri, sciolti, ben pettinati.
La pelle chiara, gli occhi neri.
La ragazza si chiama Rita.

Al secondo piano una signora sparecchia la tavola del pranzo. Piccole cose, dettagli.

Alle spalle della ragazza le stanze sono spoglie, neanche l’ombra di un oggetto familiare sui mobili, di una collana appoggiata momentaneamente su un tavolino, nessuna maglietta dimenticata su una sedia.
Solo scatoloni da trasloco pronti ad essere svuotati, pieni di vestiti e di pochi oggetti.
Quella ragazza è abituata ai traslochi improvvisi, ma questa volta quei vestiti, ha deciso di lasciarli sul fondo delle scatole.
Ha deciso che uscirà così, indossando il pigiama di seta rosa con le righe bianche, leggero, estivo.
Si è preparata, si è pettinata, si è truccata, ora è pronta.
Rita si arrampica sulla finestra.
Vuole provare a riempire quel suo corpo di vento.
Vuole abbandonare la sua vita nelle scatole alle sue spalle per riscriverla nel vento.
Con un gesto abituale si sistema i capelli… e si lascia cadere.


Rita Atria

Rita Atria  è nata il  4 settembre 1974 a Partanna, in provincia di Trapani, figlia di Vito Atria, un boss della mafia locale. Rita ha solo 17 anni quando, dopo l’uccisione del padre e del fratello Nicola, nel novembre del 1991 decide di seguire l’esempio della cognata, Piera Aiello, denunciando i segreti che le erano stati confidati dallo stesso Nicola. 
Nasce così il particolare rapporto di fiducia col Procuratore della Repubblica di Marsala, il giudicePaolo Borsellino il quale, per Piera e Rita, diventerà lo “zio Paolo”. Sarà Paolo Borsellino a far trasferire Rita e Piera Aiello a Roma, sotto falsa identità, per meglio proteggerle dalla vendetta dalle cosche.
 Il giorno dopo la strage di via D'Amelio, Rita scrive nel suo diario nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora -come abbiamo spesso detto- si impongono alla riflessione di ognuno: "(…)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. " 
Nonostante l'affetto e la vicinanza di Piera Aiello, con Paolo Borsellino muore anche “la speranza" del cambiamento possibile che Rita Atria aveva riposto nel giudice. "Un'altra delle mie stelle è volata via., me l'hanno strappata dal cuore". Queste sono le parole che Rita confiderà singhiozzando a Piera, dopo aver appreso della morte del giudice e degli agenti della sua scorta, le parole riportate dal Piera Aiello nel suo libro "Maledetta mafia"
Sabato 25 luglio 1992. Rita aveva deciso di restare a Roma e non seguire Piera Aiello che ha bisogno di andare in Sicilia: tornare per rivedere la madre e cercare di attenuare in qualche modo l'angoscia della morte dello "zio paolo". All'aereoporto, improvvisamente, Rita dice a Piera:  "Io non parto".  E ritorna nella casa di Via Amelia, nel quartiere Tuscolano.

Domenica 26 luglio 1992, la domenica successiva alla strage di via D'Amelio. 
In quel pomeriggio Rita lascia cadere la speranza, l'ultima, nel vento.


Tema di maturità di Rita Atria
Titolo
"La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".

Svolgimento
"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. 
Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
 Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi. Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. 
I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992

lunedì 25 luglio 2016

l'Africa saccheggiata dalle offshore dei potenti. Non possiamo fingere di ignorare a chi giova "svuotare" l'Africa

"Panama Papers": l'Africa saccheggiata dalle offshore dei potenti: una nuova inchiesta giornalistica internazionale svela 1.400 società anonime utilizzate per spogliare le risorse naturali del continente nero. Petrolio, gas, oro, diamanti: ecco come i soldi sottratti alle popolazioni in miseria finiscono nei paradisi fiscali. Tra corruzioni, guerre, colpi di stato e riciclaggio di denaro sporco. Non possiamo fingere di ignorare a chi giova "svuotare" l'Africa dalle sue popolazioni. Potrebbe sembrare la fisima di menti accecate da paure infantili di "complottismo universale" ma occorrerebbe sempre cercare di "allargare lo sguardo", avere una visione d'insieme. E allora, se accostiamo e mettiamo a raffronto gli interessi della alta finanza ( che non ha confini nè "colori") alla manifesta debolezza della politica mondiale a gestire e risolvere i problemi complessi dell'epoca e della crisi che viviamo (quando addirittura non si rilveli -quella della "politica"- mera accondiscendenza ai "desiderata" della finanza), possiamo gingere alla conclusione che quello a cui stiamo assistendo pare avere le caratteristiche di un disegno organico: se parliamo per metafora, si può acquistare certamente a buon prezzo una casa abbandonata, cadente e col tetto devastato....A questo è stata ridotta l'Africa, un continente che da secoliviene sfruttato come un metaforico "bancomat" dalle potenze mondiali: dalla predazione umana, la riduzione in schiavitù delle popolazione africane, alla predazione ininterrotta delle ricchezze minerarie di cui il continente è ricchissimo.

Fonte : L'ESPRESSO 

Ecco  nuovi Panama Papers: l'Africa saccheggiata dalle offshore dei potenti. Tre mesi dopo aver svelato migliaia di società anonime utilizzate dai ricchi del mondo per spostare profitti e patrimoni nei paradisi fiscali a tassazione bassissima o nulla, una nuova inchiesta internazionale dei giornalisti associati al consorzio Icij mette a nudo gli affari segreti di politici, militari, dirigenti statali, manager e imprenditori che si spartiscono le enormi risorse naturali del Continente nero . Leggi qui l'articolo 

immagini e facce della stessa medaglia...






martedì 19 luglio 2016

Il dovere di fare memoria: Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina

19 luglio 1992 - Strage di Via D'amelio:  il dovere di fare memoria sullo scandalo di una strage di Stato, sull'infamia di "pezzi" di Stato collusi con mafie e "zona grigia". Perchè anche la Strage di Via D'amelio, come le altre, è ancora una strage senza Verità e senza Giustizia 
L'articolo di Lirio Abate, pubblicato oggi da L'Espresso, serve a riconfermare lo scandalo dell'assassinio di Paolo Borsellino di Giovanni falcone, lo scandalo delle Strage di Capaci e della strage di Via D'amelio 
“Borsellino, ecco perché ci vergogniamo”. Questo il titolo scelto dal giornalista. E bastano poche righe per comprendere i contorni dello scandalo. Riportiamo il brano inizale dell'articolo che potete leggere integralmente qui
"Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare
Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni".

Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare.(...)
Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino: «Paolo mi disse: “Mi ucciderà la mafia ma solo quando altri glielo consentiranno”». 

Paolo Borsellino (52 anni) giudice 
 Agostino Catalano (43 anni) assistente-capo Polizia di Stato 
Emanuela Loi ( 24 anni) agente della Polizia di Stato 
Walter Eddie Cosina (31 anni) agente scelto Polizia di Stato 
Traina Claudio (27 anni) agente scelto  Polizia di Stato  
Vincenzo Li Muli   (22 anni) agente  Polizia di Stato

PER AMORE




Se ci chiediamo perchè hanno accetto di morire, la risposta la troviamo nelle parole che  lo stesso Paolo Borsellino pronunciò la sera del 23 giugno 1992, a un mese dalla Strage di Capaci, durante la commemorazione dell'eccidio fatta nel cortile di Casa Professa, a Palermo. 
Quella sera Paolo Borsellino ricorda Giovanni Falcone, l'amico fraterno, il compagno di giochi nei cortili della Khalsa di Palermo, l'amico  dinanzi al cui feretro aveva rinnovato il patto di amicizia "per sempre". Paolo Borsellino parla di Giovanni Falcone ma, lo sappiamo, parla anche di se stesso e di coloro che hanno scelto di rimanere accanto a lui per proteggerlo. 
Le parole di Paolo Borsellino:
"(...) Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. 
Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? 
Per amore! 
La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. 
Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.(...)
Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia: accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo."

Anche Paolo Borsellino, Catalano Agostino, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Traina Claudio, Vincenzo Li Muli , sono vivi! 
Sono vivi nelle coscienze di coloro che accettano di assumersi responsabilità: di lottare per la Giustizia, di condurre una vita onesta e dignitosa.

lunedì 18 luglio 2016

Il dovere di fare memoria: "Lettera a Paolo" di Roberto Scarpinato - 19 luglio 2012

Domani 19 luglio si farà memoria di coloro che, servitori dello Stato, hanno sacrificato in Via D'Amelio la loro vita per i valori etici e morali che si vorrrebbe riconoscere in uno Stato. Ma oggi facciamo memoria ricordando quanto disse Robero Scaripinato, Procuratore Generale di Caltanissetta il 19 luglio 2012 nel ventennale della strage nella quale vennero uccisi Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina
Occorre ricordare le parole di roberto Scarpinato perchè quelle parole contengono l'eresia della verità: la verità di uno Stato che non ha ancora saputo eliminare dal suo organismo i "pezzi di mafie", i pezzi di "pensiero mafioso", che permettono a quelle di continuare a dominare troppi "pezzi" del nostro paese. 
Si fa finta di non vederli quei "pezzi di mafie", ci si accomoda accanto a quei "pezzi di mafie" in occasione di "commemorazioni", conferenze, sedi istituzionali! Pier Luigi Davigo, da poco presidente dell'Asociazione nazionale magistrati, pochi giorni orsono ha detto semplicemente : "I politici perbene non siedano vicino ai corrotti". Sarebbe una rivoluzione! Sarebbe la rivoluzione morale agognata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

Caro Paolo...
Caro Paolo, oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge, acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone delmaxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari "creatori di senso". Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. 
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. 
Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione."
"Lettera a Paolo" - Roberto Scarpinato - 19 luglio 2012